Oggi, alla domanda posta a bruciapelo: «cos’è il gusto?», non possiamo che rispondere: «un tabù culturale». Cioè, qualcosa di cui sia lecito supporre l’esistenza, ma di cui sia vietato parlare. O meglio, di cui si può anche parlare, ma solo con riferimento a vino e cibo. Tacere su tutto il resto.
In fatto di gusto, vale, oggi più che mai, la famosa frase di Sant’Agostino sul tempo: «Se nessuno me lo chiede, so cos’è, ma se mi chiedono di spiegarlo, non lo so più».
Questa interdizione a parlare del gusto deriva tanto dalla contradditorietà teorica intrinseca al concetto, quanto dall’atteggiamento ambiguo tenuto da quel prototipo sociale che è il Borghese Nobilitato nei confronti della delicata, quanto tuttora irrisolta questione dell’identità boghese.
Di seguito, provo a tratteggiare, in estrema sintesi, il motivo per cui la nobilitazione borghese abbia, tra le varie conseguenze, anche quella di vietare la critica, quindi il dibattito sul gusto.
Del resto, chi abbia anche una superficiale esperienza dell’educazione borghese otto-novecentesca, ha ben presente il principio maieutico: «non è di buon gusto dire ciò che sia o non sia di buon gusto». Lo si deve sapere, e basta. E difatti, chiunque abbia ricevuto quel tipo di educazione, lo sa.
Eppure l’idea di gusto è nozione cardine dell’estetica europea. Addirittura può dirsi che la stessa estetica, come disciplina speculativa autonoma, arrivi a ritagliarsi un suo spazio nel campo degli studi filosofici, tra XVII e XVIII secolo, proprio nel tentativo di enucleare, circoscrivere e definire tale concetto.
Il Settecento, in particolare, è ossessionato dal gusto. Tuttavia, già durante questo secolo, s’inizia ad avvertire l’esigenza di tacerne, al punto da far emergere la contradditorietà di un sapere “che sa di non sapere”, la cui stessa region d’essere appare minata da un difetto costitutivo congenito.
Come ricorda il ben noto adagio latino: de gustibus non disputandum est, l’interdizione a parlare di gusto aspira a trovare una sua legittimazione appoggiandosi, come sempre, sull’Antico. Non bisogna, però, lasciarsi ingannare. Sebbene qualcuno abbia voluto ricondurre il motto addirittura a Cicerone, l’interdetto non ha nulla a vedere con la latinità classica, bensì e ben più, col latinorum da Don Abbondi, da azzecca-garbugli, da goliardi di mezza tacca. Del resto, lo stesso termine gustus, (sostantivo maschile della IV declinazione, gustus, –us) non è poi così antico come vorrebbe: nasce probabilmente nella tarda romanità, forse anche nell’Alto Medioevo.
In ogni caso, il motto inizia a circolare, in forma satirica, proprio durante il Settecento. Ne è testimonianza il dramma giocoso per musica, rappresentato a Venezia nel teatro Tron di San Cassiano durante il Carnevale del 1754, con libretto di Carlo Goldoni e musica di Giuseppe Scarlatti. Quest’opera buffa trae, per l’appunto, il titolo dal motto latino assunto alla lettera: De gustibus non est disputandum. Interessante è notare come il motteggio operistico si apra e chiuda su uno stesso ritornello:
De’ gusti disputar cosa è fallace;
non è bel quel ch’è bel, ma quel che piace.
Di certo, la sentenza diventa ben presto assioma apodittico, si fissa nel senso comune e arriva a noi con una forza d’inerzia e un potere prescrittivo assoluto.
Lo sanno tutti: il gusto è vario e varia con le età, i sessi, i luoghi, le epoche, ecc.
Il difetto costituzionale del gusto è dunque quello di non identificare nulla di definitivo, di costante, ma soprattutto di generale, di universale, rinviando, invece, a un qualcosa d’inafferrabile, d’anfibologico, d’indescrivibile, di talmente volubile e volatile per cui non mette conto discuterne.
Tuttavia, a ben vedere, il problema vero è un altro. Deriva dalla natura incontrovertibile del gusto come “marcatore sociale“. Il gusto, infatti, sta all’uomo come il paracarro sta al cane: costituisce il suo modo di marcare il territorio. Da ciò, la delicatezza del tema.
Dall’etologia animale sappiamo, infatti, che quando un maschio adulto entra nel territorio controllato da un maschio alfa, ha due sole alternative: sottomettersi a quello o sopraffarlo.
Nel campo del gusto, le cose sono un po’ più articolate, sfumate e complesse, ma non poi così dissimili. Chiunque voglia essere ammesso in un dato ambiente sociale ha, ugualmente, due sole possibilità: o ne accetta regole e convenzioni, o riesce a imporre le proprie. Ovviamente, questa seconda via è più stretta e impervia.
Il Borghese Gentiluomo di Molière costituisce la caricatura più spietata ed esatta dello sforzo psicosociale compiuto, in Antico Regime, dai ceti emergenti per riuscire ad apprendere le regole e le convenzioni imposte dalla nobiltà. La nobilitazione, all’epoca, è una cosa seria. È sancita, disciplinata, verificata e certificata in conformità a decreti, statuti e leggi. Non è certo, o quantomeno non soltanto, il fenomeno sociale esornativo, mondano e vacuo che oggi ci rappresentiamo. Fino a epoche poi non così remote, uscire dalla roture ottenendo una qualche patente di nobiltà, è l’unico modo per aspirare a cariche pubbliche, a ruoli di rilievo nell’esercito, nella chiesa, nell’amministrazione dello stato, ecc. La nobilitazione è, come oggi si usa dire, l’unico “ascensore sociale” disponibile. Ma non ha nulla della comodità del nostro mezzo meccanico, bensì tutto del cammino impervio, disseminato di pericoli e trabocchetti, tra cui il rischio del ridicolo, rappresentato da Molière, è, in realtà, il meno preoccupante.
In questo quadro, il problema del “buon gusto” diventa esiziale. Conoscerlo, interpretarlo, maneggiarlo con sicurezza è una delle chiavi più efficaci per aprire le porte della nobilitazione. E il gusto architettonico, in particolare, occupa un posto di primaria importanza. Non va dimenticato il fatto che “casa” e “casato” siano sinonimi, quindi che esista una corrispondenza biunivoca tra la dignità e il decoro della casa, intesa sia come edificio, sia come famiglia.
Ciò emerge in modo evidente da una delle prime definizioni ufficiali del buon gusto, offerta, nientemeno che dall’Académie Française, nel 1672:
«il buon gusto è ciò che piace alle persone che hanno gusto».

Con la brutale mancanza d’ipocrisia tipica del linguaggio Ancien Régime, la tautologia della sentenza dice le cose come stanno. Al punto che, ancor oggi, appare difficile trovare una definizione altrettanto giusta, definitiva ed esauriente. Ma se per noi è quasi impossibile accordarsi su chi siano le “persone che hanno gusto”, all’epoca, la struttura piramidale della società non lascia spazio al dubbio. La questione è chiara e limpida come l’acqua: tutto discende dal re e dalla sua corte.
Il che, nuovamente, è ribadito senza mezzi termini, dopo meno di un secolo, nell’Encyclopédie, proprio laddove si evidenzia la funzione maieutica della corte.
«Qui la buona educazione è dovuta all’eguaglianza cui sono ridotti, a causa dell’estrema grandezza di uno solo, tutti coloro che lo circondano; e il gusto è raffinato dall’uso continuo delle ricchezze superflue, tra le quali si trovano necessariamente prodotti artificiali di ricercatissima perfezione. La coscienza di tale perfezione si estende ad altri oggetti assai più importanti: passa nella lingua, nei giudizi, nei sentimenti, nel comportamento, nelle buone maniere, nel tono, nelle celie, nelle opere dell’ingegno, nelle galanterie, nei rapporti individuali, perfino nella morale».
E ancora, è rilevata l’importanza della frequentazione, non solo della corte, ma anche del suo contraltare, il monde, ossia l’elite che si raccoglie abitualmente nei vari salons delle varie salonnieres. Da quello mitico, di Madame de Rambouillet, per arrivare a quelli altrettanto celebri di Madame de Scudéry, de Sévigné, de La Fayette, de La Sablière, de La Vallière, de Lambert, de Tencin, Geoffrin, du Deffand, de Lespinasse, e di tante altre.
Case eleganti e accoglienti che, con le loro tavole sempre apparecchiate e imbandite per diversi coperti, non sono soltanto luoghi di dissipazione mondana, d’intrighi d’ogni genere, di liaisons più o meno dengereuses, ma sono soprattutto scuole di politesse, di civilité, sono insomma centri deputati a educare l’intera società. Per questo, l’Encyclopédie ricorda ancora come i fondamenti del gusto architettonico, il “senso del decoro” e la “capacità di giudizio”, si possano apprendere solo attraverso l’opera di educazione sociale che la corte e il monde impartiscono, per via gerarchica, a tutti gli strati della popolazione.
«È dalla diversità del rango, dal monarca ai grandi principi, e da questi ai vari sudditi, che devono necessariamente trarre origine i differenti caratteri degli edifici; nozioni indispensabili che non si possono acquisire se non attraverso lo studio dell’arte e, in modo particolare, mediante la frequentazione del monde; è in virtù di ciò, non ne dubitiamo, che si perviene al senso del decoro, e che si osservano le convenienze (bienséances), che si acquisisce la capacità di giudizio, che si mette ordine alle idee, che il gusto si affina, e che s’impara a riconoscere, senza incertezze, il carattere proprio da assegnare a ciascun edificio. Certamente, il rango del committente, è la fonte da cui nascono i vari tipi d’espressione di cui intendiamo parlare: tuttavia come si può arrivarvi senza la frequentazione del monde, che c’insegna a distinguere le esigenze e lo stile conveniente a questa o a quell’abitazione, edificata da questo o quel proprietario?»
Con la Rivoluzione Francese le cose cambiano, ma fino a un certo punto.
(Continua)