L’epoca post-ingegneristica e il gusto architettonico che verrà

C’è sempre un “prima” e un “dopo”. C’è un “prima e un dopo la scoperta dell’America”. C’è un “prima e un dopo la rivoluzione”. C’è un “prima e un dopo la guerra”. Ogni “dopo” porta con sé la fine di certezze, convinzioni e credenze, fino a “prima” pensate come definitive, immutabili, incrollabili, eterne.

Così oggi, a demolizione avvenuta, siamo entrati nel “dopo Ponte Morandi”. Perché il crollo dei monconi, delle pile e degli stralli superstiti non è solo uno spettacolare esercizio di demolizione controllata, ma è soprattutto il crollo di certezze fino a ieri indiscusse: la fiducia cieca e assoluta nell’ingegneria e nel cemento armato.

Vuol dire, cioè, che siamo entrati ufficialmente nell’era post-ingegneristica e post-cemento armato. Cosa non da poco, destinata ad avere enormi ripercussioni sul gusto architettonico. Tuttavia la cosa non è ancora avvertita perché non evidente. Perché nessuno osa dire chiaro e tondo le due sole cose che ci siano da dire: primo, questo ponte è venuto giù non per sola mancanza di manutenzione, ma perché era completamente sbagliato progettualmente; secondo, il cemento armato è come il latte: ha una data di scadenza che, a differenza di quella del latte, è difficile da prevedere.

Entrambe le cose sono ostiche da dire, perché rinunciare alle certezze è sempre destabilizzante. La fede nell’ingegneria è andata crescendo durante tutto il XIX e ancor più durante il XX secolo, identificandosi con la fede nel progresso. Come vuole il luogo comune insistito alla noia: “non si può fermare il progresso”. E’ come pensare di fermare un treno in corsa stando in piedi in mezzo ai binari. Ogni tanto, però, il treno del progresso si ferma da solo, deragliando, come nel tragico caso in questione.

I benpensanti, però, sono pronti a spiegarci che quel treno, in realtà, non è deragliato da solo. Se si fossero messi in opera quei benedetti trefoli aggiuntivi, ossia quei cavi d’acciaio rivestiti da guaina nera, sulle altre due pile, come era stato fatto, invece, solo sulla prima, oggi il ponte sarebbe ancora lì, in piedi, funzionante. Di certo, si sarebbero risparmiate vite umane, quindi tutti ce ne dogliamo. Ma bisogna avere l’onestà intellettuale di ammetter che, in quel caso, non si sarebbe trattata di manutenzione, bensì di una radicale trasformazione dell’originaria struttura portante. Perché quei cavi di acciaio si sarebbero, di fatto, sostituiti agli stralli di cemento armato nell’essenziale funzione di sorreggere l’impalcato; funzione che questi ultimi, come si è visto, non erano più in grado di garantire.

Questo è, infatti, l’errore fondamentale, macroscopico, del Ponte Morandi: l’idea folle, anzi oggi possiamo dire criminale, d’aver voluto usare il cemento armato precompresso per realizzare quegli stralli. Un errore contro il buonsenso,  che non avrebbe fatto nemmeno un muratore, perché chiunque abbia una qualche pratica di edilizia sa che il cemento armato precompresso ha una buona resistenza e perfino una certa elasticità se usato per realizzare travature, ma non certo se sollecitato a trazione. E’ una cosa logica, è come pretendere di tenersi su i pantaloni con bretelle di legno, o di trainare un rimorchio usando una barra di marmo, anziché d’acciaio. Ci si chiede allora, perché un ingegnere dell’intelligenza di Riccardo Morandi abbia compiuto un errore così marchiano e insensato? La risposta è data dalla smisurata fiducia che, all’epoca, quasi tutti avevano nel cemento armato. E’ questa stessa fiducia che ha spinto a veri e propri azzardi, di cui tra l’altro – ed è questa la cosa più inquietante – loro stessi erano consapevoli. Basti ricordare la fatidica definizione delle strutture di Morandi data da Bruno Zevi durante un convegno: sembrano raggelate un momento prima del crollo. Parole sinistramente profetiche che, lette oggi, raggelano soprattutto noi.

Ma ancor più agghiacciante è il pensiero delle tante strutture di cemento armato, realizzate con la stessa spavalda sicumera “sperimentale” del Ponte Morandi ancora in funzione, un po’ ovunque, in tutto il mondo. E non mi riferisco solo a ponti e viadotti, ma anche e soprattutto all’infinità di case costruite tra gli anni ’50 e oggi. Case in cui vivono milioni di persone della cui incolumità non sembra preoccuparsi nessuno. Finché una nuova, spaventosa tragedia obbligherà ad affrontare il problema e, in un rimpallo di responsabilità, costringerà a capire come non sia possibile continuare a rattoppare, alla meno peggio, interi quartieri, ma che invece si debba avere il coraggio di demolirli per ricostruirli con materiali e tecnologie finalmente sicure.

Il Borghese Nobilitato – Il gusto come tabù – 2.

In fatto di Gusto Architettonico, con la Rivoluzione Francese le cose cambiano, ma fino a un certo punto.

La borghesia europea si risveglia ben presto dal grande sogno egalitario accorgendosi che, in realtà, la lotta in nome e per conto del popolo può tradursi in un efficace viatico per la nobilitazione.

L’Abate Sieyès, considerato tra i principali teorici della Rivoluzione, per via del suo celeberrimo pamphlet Qu’est-ce que le tiers état?, corona la propria carriera di rivoluzionario col titolo di Comte de l’Empire.

Emmanuel Joseph Sieyès (1748-1836), ritratto all’età di 69 anni da Jacques Louis David, 1817, Harvard Art Museums, Cambridge, Massachussets, USA

 

Ma, ovviamente, il campione insuperato in materia è Napoleone: non a caso, l’idolo dei Borghesi Nobilitati di tutti i tempi. L’ufficialetto corso che, in pochi anni, diventa Generale della Rivoluzione, Primo Console a vita, infine, Imperatore dei Francesi e Re d’Italia, non solo incarna l’ideale del self-made man, ma soprattutto rappresenta il riscatto di quel senso di frustrazione e revanscismo nei confronti della nobiltà di origine feudale che era ed è tuttora connaturato alla borghesia liberale di formazione otto-novecentesca.

Jean Auguste Dominique Ingres, Napoleone sul trono imperiale, 1806, Musée de l’Armée, Parigi

 

Il periodo rivoluzionario-napoleonico costituisce, dunque, lo spartiacque tra l’epoca del Borghese Nobilitato di Antico Regime, il cui prototipo è rappresentato dal povero Monsieur Jourdain di Molière, e l’epoca del Borghese Nobilitato moderno e contemporaneo che, passando per i rami di svariate dinastie di mercanti, banchieri e industriali, arriva fino a noi.

Caricatura di Napoleone durante i “Cento Giorni” del 1815. Il gioco di parole basato sull’accostamento di Serrement de nez (chiusura di naso) e Serment de Ney (giuramento di Ney) si riferisce al ripetuto cambio di casacca del Generale Michel Ney, passato da Napoleone ai Borboni e poi tornato nuovamente con Napoleone fino alla disfatta di Waterloo.

 

La differenza sta, dunque, tra un’epoca in cui la nobilitazione consiste in una cosa seria, decisiva, cioè in un iter di natura giuridica e burocratica, fondato su statuti, patenti e brevetti ratificati da istituzioni millenarie come la Chiesa e la Monarchica, e un’epoca in cui la nobilitazione è un fatto puramente mondano, esornativo, basato su questioni censuarie e salottiere; legittimato da pose e atteggiamenti blasé, da matrimoni e parentele, dall’appartenenza a circoli più o meno esclusivi.

In ogni caso, la caratteristica saliente del Borghese Nobilitato moderno è quella d’essere un ossimoro vivente. Egli è, infatti, un borghese antiborghese, ossia un borghese che odia se stesso, il proprio ambiente sociale e le istituzioni che ne hanno permesso l’ascesa. Ostenta disprezzo per denaro e potere, e fa di tutto per acquisirlo. Odia il “sistema” e la sua classe dirigente e ha come unico obiettivo farne parte.

E non a torto: la strategia funziona. Il mito del dandy anticonformista, antisistema e rivoluzionario, fa di Lord Byron l’equivalente, in campo estetico, mondano e letterario, di quel che Napoleone è in campo politico, diplomatico e militare.

Caricatura inglese del dandismo d’ispirazione byroniana, 1818

 

Altro clamoroso esempio di Borghese Nobilitato è offerto da uno dei più celebrati rappresentanti del romanticismo europeo: Victor Hugo. Questi, da un lato, costruisce la propria carriera di letterato e uomo pubblico perorando le cause dei diseredati, dei comunardi, dei repubblicani, della democrazia liberale e del progresso, in genere; dall’altro, in campo mondano, non manca di rimarcare una sua fittizia discendenza da tal Georges Hugo, capitano nobilitato alla fine del XVI secolo dal duca di Lorena, quando invece suo padre, il generale Joseph Hugo, in realtà discende da un falegname, privo della minima parentela con l’omonima dinastia nobiliare.

Tra gli anni di Byron e quelli di Hugo, il Borghese Nobilitato definisce la sua tecnica di maggior successo in fatto d’ascesa sociale: lo snobismo. Una modalità di comportamento che gli permette di alternare il ruolo del rivoluzionario con quello del generale, in epoche più recenti, del contestatore con quello dell’assessore. Il Borghese Nobilitato è, come si dice oggi, il prototipo del capo di lotta e di governo.

Secondo alcuni, il termine snob deriverebbe dall’abbreviazione s.nob. stante per sine nobilitate, posposto, nei registri d’immatricolazione dei più esclusivi college inglesi, ai nomi degli alunni borghesi, laddove, dopo i nomi dei nobili, campeggiava il conseguente titolo e predicato araldico.

Ciò avrebbe creato un senso di solidarietà e di casta tra i borghesi che si sarebbe poi tradotto in un atteggiamento blasé, eccentrico e di esclusione nei confronti dei nobili. I borghesi, infatti, ben più ricchi e meno impastoiati dai condizionamenti etici e comportamentali dati dalla ferrea educazione e disciplina nobiliare (noblesse oblige), si sarebbero raccolti in circoli esclusivi in cui coltivare interessi, atteggiamenti e gusti stravaganti, anticonformisti, o comunque estranei a quelli delle elite storiche. Come sempre, ciò che esclude attrae. La finzione di voler tenere a distanza i nobili, ottiene lo scopo cercato, cioè quello di sedurli e sottometterli.

Vera o falsa che sia la storia, sta il fatto che si definisca, tra Ottocento e Novecento, quel tipico atteggiamento di condiscendenza borghese nei confronti della nobiltà, il cui senso è ben condensato dalla voce noblesse dell’incompiuto progetto di Dictionnaire des idées reçues, ovvero Catalogue des opinions chic, di Flaubert: la mépriser et l’envier, disprezzarla e invidiarla, cioè cercare sempre di farne parte. Difatti, il Borghese Nobilitato moderno, in pubblico disprezza la nobiltà, ma in privato, fa di tutto per esservi ammesso.

Il senso di condiscendenza si radica ancor più da che la nobiltà, per sopravvivere, è costretta a s’encanailler, ossia a far sposare ai propri eredi maschi ricche borghesi portatrici di doti talmente cospicue da farle preferire alle discendenti di antiche e blasonate dinastie, ma dalle finanze ormai esangui.

Ecco, dunque, come la reticenza a parlare di gusto, anzi, questa vera e propria omertà in materia, derivi da un problema d’identità culturale. Il Borghese Nobilitato è l’uomo-in-mezzo-al-guado, impossibilitato ad approdare su alcuna sponda. Impossibile è per lui tornare indietro, su quella da cui è partito, ma ancor più difficile è raggiungere la riva opposta, cui disperatamente anela.

Da ciò l’estrema suscettibilità in materia di gusto, proprio perché il gusto, come ricorda la pantomima di Monsieur Jourdain è il maggiore marcatore sociale esistente: è ciò che rende riconoscibile l’appartenenza alla casta, indipendentemente dai soldi.

Good taste is the worst vice ever invented, scrive, con cognizione di causa, l’aristocratica poetessa inglese Dame Edith Louisa Sitwell che, in piena aderenza alla tradizione snobistica inglese, fa dell’eccentricità il proprio mantra e regola di vita.

Cecil Beaton, ritratto con esposizione multipla di Dame Edith Louisa Sitwell, 1962

 

Il gusto è allora messo al bando affinché resti incomprensibile ai nuovi venuti. Sopravvive come sapere esoterico, iniziatico, riservato a pochi, in modo da ostacolare l’ingresso dei parvenu nei circoli più esclusivi. Il fatto sembra avere del paradossale: tanto più la società si apre e rende possibile l’ascesa economica e sociale, tanto più le elite si chiudono e diventano selettive. Ciò, per esempio, è assai evidente nella società americana, che se da un lato è, da sempre, tra le più aperte e inclusive, dall’altro pone ai propri vertici barriere sociali quasi insormontabili. La distanza che ancor oggi separa l’old money dal new money è, per certi aspetti, ancora maggiore di quella che in Europa divide la nobiltà dalla borghesia. Lo stesso può dirsi dei paesi in cui, fino a pochi anni fa, vigevano regimi socialisti e che oggi presentano forme di snobismo e revivalismo nobiliare talmente paradossali e lontane dalla mentalità europea occidentale da apparire caricaturali.

Il gusto, com’era inteso dall’Illuminismo settecentesco, ossia come maieutica interclassista, come forma di educazione sociale che dall’alto emana verso il basso, è ostracizzato proprio nella società socialdemocratica che si pretende orizzontale, senza classi.

Il Borghese Nobilitato inventa un altro principio estetico fondamentale: lo stile. Ed è proprio l’ossessione otto-novecentesca per lo stile e lo stilismo ciò che manda definitivamente in soffitta l’idea di gusto, facendola diventare ciò che oggi è: un tabù culturale. Vietato parlarne.

Il Borghese Nobilitato – Il gusto come tabù – 1.

Oggi, alla domanda posta a bruciapelo: «cos’è il gusto?», non possiamo che rispondere: «un tabù culturale». Cioè, qualcosa di cui sia lecito supporre l’esistenza, ma di cui sia vietato parlare. O meglio, di cui si può anche parlare, ma solo con riferimento a vino e cibo. Tacere su tutto il resto.
In fatto di gusto, vale, oggi più che mai, la famosa frase di Sant’Agostino sul tempo: «Se nessuno me lo chiede, so cos’è, ma se mi chiedono di spiegarlo, non lo so più».

Questa interdizione a parlare del gusto deriva tanto dalla contradditorietà teorica intrinseca al concetto, quanto dall’atteggiamento ambiguo tenuto da quel prototipo sociale che è il Borghese Nobilitato nei confronti della delicata, quanto tuttora irrisolta questione dell’identità boghese.
Di seguito, provo a tratteggiare, in estrema sintesi, il motivo per cui la nobilitazione borghese abbia, tra le varie conseguenze, anche quella di vietare la critica, quindi il dibattito sul gusto.
Del resto, chi abbia anche una superficiale esperienza dell’educazione borghese otto-novecentesca, ha ben presente il principio maieutico: «non è di buon gusto dire ciò che sia o non sia di buon gusto». Lo si deve sapere, e basta. E difatti, chiunque abbia ricevuto quel tipo di educazione, lo sa.

Eppure l’idea di gusto è nozione cardine dell’estetica europea. Addirittura può dirsi che la stessa estetica, come disciplina speculativa autonoma, arrivi a ritagliarsi un suo spazio nel campo degli studi filosofici, tra XVII e XVIII secolo, proprio nel tentativo di enucleare, circoscrivere e definire tale concetto.
Il Settecento, in particolare, è ossessionato dal gusto. Tuttavia, già durante questo secolo, s’inizia ad avvertire l’esigenza di tacerne, al punto da far emergere la contradditorietà di un sapere “che sa di non sapere”, la cui stessa region d’essere appare minata da un difetto costitutivo congenito.

Come ricorda il ben noto adagio latino: de gustibus non disputandum est, l’interdizione a parlare di gusto aspira a trovare una sua legittimazione appoggiandosi, come sempre, sull’Antico. Non bisogna, però, lasciarsi ingannare. Sebbene qualcuno abbia voluto ricondurre il motto addirittura a Cicerone, l’interdetto non ha nulla a vedere con la latinità classica, bensì e ben più, col latinorum da Don Abbondi, da azzecca-garbugli, da goliardi di mezza tacca. Del resto, lo stesso termine gustus, (sostantivo maschile della IV declinazione, gustus, –us) non è poi così antico come vorrebbe: nasce probabilmente nella tarda romanità, forse anche nell’Alto Medioevo.

In ogni caso, il motto inizia a circolare, in forma satirica, proprio durante il Settecento. Ne è testimonianza il dramma giocoso per musica, rappresentato a Venezia nel teatro Tron di San Cassiano durante il Carnevale del 1754, con libretto di Carlo Goldoni e musica di Giuseppe Scarlatti. Quest’opera buffa trae, per l’appunto, il titolo dal motto latino assunto alla lettera: De gustibus non est disputandum. Interessante è notare come il motteggio operistico si apra e chiuda su uno stesso ritornello:

De’ gusti disputar cosa è fallace;
non è bel quel ch’è bel, ma quel che piace.

Di certo, la sentenza diventa ben presto assioma apodittico, si fissa nel senso comune e arriva a noi con una forza d’inerzia e un potere prescrittivo assoluto.
Lo sanno tutti: il gusto è vario e varia con le età, i sessi, i luoghi, le epoche, ecc.
Il difetto costituzionale del gusto è dunque quello di non identificare nulla di definitivo, di costante, ma soprattutto di generale, di universale, rinviando, invece, a un qualcosa d’inafferrabile, d’anfibologico, d’indescrivibile, di talmente volubile e volatile per cui non mette conto discuterne.

Tuttavia, a ben vedere, il problema vero è un altro. Deriva dalla natura incontrovertibile del gusto come “marcatore sociale“. Il gusto, infatti, sta all’uomo come il paracarro sta al cane: costituisce il suo modo di marcare il territorio. Da ciò, la delicatezza del tema.
Dall’etologia animale sappiamo, infatti, che quando un maschio adulto entra nel territorio controllato da un maschio alfa, ha due sole alternative: sottomettersi a quello o sopraffarlo.
Nel campo del gusto, le cose sono un po’ più articolate, sfumate e complesse, ma non poi così dissimili. Chiunque voglia essere ammesso in un dato ambiente sociale ha, ugualmente, due sole possibilità: o ne accetta regole e convenzioni, o riesce a imporre le proprie. Ovviamente, questa seconda via è più stretta e impervia.

Il Borghese Gentiluomo di Molière costituisce la caricatura più spietata ed esatta dello sforzo psicosociale compiuto, in Antico Regime, dai ceti emergenti per riuscire ad apprendere le regole e le convenzioni imposte dalla nobiltà. La nobilitazione, all’epoca, è una cosa seria. È sancita, disciplinata, verificata e certificata in conformità a decreti, statuti e leggi. Non è certo, o quantomeno non soltanto, il fenomeno sociale esornativo, mondano e vacuo che oggi ci rappresentiamo. Fino a epoche poi non così remote, uscire dalla roture ottenendo una qualche patente di nobiltà, è l’unico modo per aspirare a cariche pubbliche, a ruoli di rilievo nell’esercito, nella chiesa, nell’amministrazione dello stato, ecc. La nobilitazione è, come oggi si usa dire, l’unico “ascensore sociale” disponibile. Ma non ha nulla della comodità del nostro mezzo meccanico, bensì tutto del cammino impervio, disseminato di pericoli e trabocchetti, tra cui il rischio del ridicolo, rappresentato da Molière, è, in realtà, il meno preoccupante.

In questo quadro, il problema del “buon gusto” diventa esiziale. Conoscerlo, interpretarlo, maneggiarlo con sicurezza è una delle chiavi più efficaci per aprire le porte della nobilitazione. E il gusto architettonico, in particolare, occupa un posto di primaria importanza. Non va dimenticato il fatto che “casa” e “casato” siano sinonimi, quindi che esista una corrispondenza biunivoca tra la dignità e il decoro della casa, intesa sia come edificio, sia come famiglia.
Ciò emerge in modo evidente da una delle prime definizioni ufficiali del buon gusto, offerta, nientemeno che dall’Académie Française, nel 1672:

«il buon gusto è ciò che piace alle persone che hanno gusto».

Con la brutale mancanza d’ipocrisia tipica del linguaggio Ancien Régime, la tautologia della sentenza dice le cose come stanno. Al punto che, ancor oggi, appare difficile trovare una definizione altrettanto giusta, definitiva ed esauriente. Ma se per noi è quasi impossibile accordarsi su chi siano le “persone che hanno gusto”, all’epoca, la struttura piramidale della società non lascia spazio al dubbio. La questione è chiara e limpida come l’acqua: tutto discende dal re e dalla sua corte.
Il che, nuovamente, è ribadito senza mezzi termini, dopo meno di un secolo, nell’Encyclopédie, proprio laddove si evidenzia la funzione maieutica della corte.

«Qui la buona educazione è dovuta all’eguaglianza cui sono ridotti, a causa dell’estrema grandezza di uno solo, tutti coloro che lo circondano; e il gusto è raffinato dall’uso continuo delle ricchezze superflue, tra le quali si trovano necessariamente prodotti artificiali di ricercatissima perfezione. La coscienza di tale perfezione si estende ad altri oggetti assai più importanti: passa nella lingua, nei giudizi, nei sentimenti, nel comportamento, nelle buone maniere, nel tono, nelle celie, nelle opere dell’ingegno, nelle galanterie, nei rapporti individuali, perfino nella morale».

E ancora, è rilevata l’importanza della frequentazione, non solo della corte, ma anche del suo contraltare, il monde, ossia l’elite che si raccoglie abitualmente nei vari salons delle varie salonnieres. Da quello mitico, di Madame de Rambouillet, per arrivare a quelli altrettanto celebri di Madame de Scudéry, de Sévigné, de La Fayette, de La Sablière, de La Vallière, de Lambert, de Tencin, Geoffrin, du Deffand, de Lespinasse, e di tante altre.
Case eleganti e accoglienti che, con le loro tavole sempre apparecchiate e imbandite per diversi coperti, non sono soltanto luoghi di dissipazione mondana, d’intrighi d’ogni genere, di liaisons più o meno dengereuses, ma sono soprattutto scuole di politesse, di civilité, sono insomma centri deputati a educare l’intera società. Per questo, l’Encyclopédie ricorda ancora come i fondamenti del gusto architettonico, il “senso del decoro” e la “capacità di giudizio”, si possano apprendere solo attraverso l’opera di educazione sociale che la corte e il monde impartiscono, per via gerarchica, a tutti gli strati della popolazione.

«È dalla diversità del rango, dal monarca ai grandi principi, e da questi ai vari sudditi, che devono necessariamente trarre origine i differenti caratteri degli edifici; nozioni indispensabili che non si possono acquisire se non attraverso lo studio dell’arte e, in modo particolare, mediante la frequentazione del monde; è in virtù di ciò, non ne dubitiamo, che si perviene al senso del decoro, e che si osservano le convenienze (bienséances), che si acquisisce la capacità di giudizio, che si mette ordine alle idee, che il gusto si affina, e che s’impara a riconoscere, senza incertezze, il carattere proprio da assegnare a ciascun edificio. Certamente, il rango del committente, è la fonte da cui nascono i vari tipi d’espressione di cui intendiamo parlare: tuttavia come si può arrivarvi senza la frequentazione del monde, che c’insegna a distinguere le esigenze e lo stile conveniente a questa o a quell’abitazione, edificata da questo o quel proprietario?»

Con la Rivoluzione Francese le cose cambiano, ma fino a un certo punto.

(Continua)